La visita, di Andrea Bedetti
Solo l'arte riesce a coniugare e ad armonizzare due opposti, che siano il concetto della felicità con quello dell'infelicità, quello della comicità con il dolore, l'amarezza con l'idea della spensieratezza. E anche l'arte cinematografica in ciò non è da meno, basta trovare un regista che, partendo da un semplice canovaccio, riesca a far sorridere scavando un solco nel cuore e nei sentimenti dello spettatore. E in ciò un grande regista, oggi parzialmente dimenticato, soprattutto dalle nuove generazioni, qual è stato Antonio Pietrangeli (padre del cantautore Paolo, quest'ultimo da molti conosciuto per essere stato anche il regista di una delle trasmissioni più seguite negli scorsi anni, il Maurizio Costanzo Show), è riuscito come pochi a coniugare gli opposti delle nostre emozioni, cantando l'amarezza e il dolore dell'umano esistere attraverso i panni lieti e ironici di una timida comicità. E oltre a ciò Pietrangeli – che la morte ha voluto con sé in un modo amaro e particolare, come i suoi film, facendolo annegare nel 1968 nelle acque del mare di Gaeta mentre stava girando le ultime scene di Come, quando, perché – ha saputo presentare e spiegare, come pochissimi altri, l'"altra metà del cielo", ossia l'universo femminile, attraverso una galleria di personaggi incastonati in capolavori cinematografici come Adua e le sue compagne (1960), La parmigiana (1963), La visita (1963) e Io la conoscevo bene (1964).
Il regista Antonio Pietrangeli sul set de La visita.
Proprio ne La visita – girato in quella zona della Bassa Padana dove la terra mantovana incontra e si stempera in quella ferrarese –, film tratto da un racconto di Carlo Cassola, Pietrangeli seppe dare vita a uno dei personaggi femminili più acuti, struggenti e profondi di tutto il cinema italiano dello scorso secolo, quello di Pina, interpretato in modo straordinario da Sandra Milo. Un film che temporalmente si svolge nell'arco di una giornata, durante la quale i due protagonisti Pina e Adolfo (reso magistralmente da un grande attore teatrale e cinematografico francese, François Périer, qui doppiato in romanesco) si incontrano, si conoscono, si studiano e si lasciano con poche speranze e molti rimpianti, sull'onda di "ciò che avrebbe potuto essere e non è stato".
La trama è presto detta: Pina, una florida e ormai attempata zitella, che lavora come segretaria in un consorzio agrario della Bassa, decide di maritarsi e nel tentativo di trovare un consorte mette un annuncio in una rubrica per cuori solitari. Quell'annuncio viene letto da Adolfo, commesso in una libreria romana, e i due, dopo essersi scambiati alcune missive, decidono finalmente di incontrarsi di persona, con Adolfo che una domenica mattina, dopo aver viaggiato tutta la notte, raggiunge Pina per trascorrere una giornata insieme, per sancire di persona quelle affinità, quelle similitudini che lo scambio epistolare aveva messo apparentemente in risalto. Pina, oltre a vantare un fisico ancora prosperoso e invitante tanto che da essere soprannominata in paese "la bella Culandrona" (a tale proposito si racconta che il produttore del film, il magnate greco naturalizzato italiano Moris Ergas, a quel tempo sposato proprio con la Milo, convinse Pietrangeli a mettere sotto i tailleur indossati dall’attrice dei cuscinetti per esaltare e rendere ancora più voluminoso e appetibile il suo "lato B"!), è in fondo una donna che crede ancora nella figura del "principe azzurro" e lo cerca nonostante l'età, le inevitabili delusioni e i sogni a occhi aperti sui quali le palpebre non si sono mai abbassate.
Adolfo, al contrario, è solo un piccolo, meschino borghese, un bieco arrivista, uno che si vuole accasare per mettere le mani sui soldi e sulle proprietà di colei che potrebbe essere sua moglie (si guardi l'irresistibile scena nella quale il commesso, rimasto da solo a casa di Pina, alquanto alticcio, comincia a fare i conti su quanto l'immobile potrebbe fruttargli…). Due caratteri, due modi essere e di affrontare la vita completamente diversi e che durante la fatidica visita verranno fuori in modo esemplare, spietato, facendo sì che Pina si renda conto che Adolfo non è l'uomo dei suoi sogni, ma solo un povero opportunista; e l'uomo, messo di fronte alla propria meschinità, non può fare altro che prendere il treno, tornare a Roma e rendersi conto di ciò che è in fondo, un perenne sconfitto dalla vita e da se stesso. Intorno a loro, nel corso di quella giornata, ci sono altri personaggi, soprattutto due, lo scemo del villaggio, Cucaracha (così soprannominato perché è felice solo quando balla), reso benissimo da Mario Adorf, e Renato (Gastone Moschin), un camionista sposato, amante della stessa Pina, che inutilmente aveva cullato il sogno che avrebbe potuto essere il suo uomo. Altri sconfitti, altri infelici, altre pedine di un gioco assurdo che è la vita, tutti immersi in una dimensione provinciale che vive solo di riflesso il boom economico ormai già destinato a tramontare.
Per ciò che riguarda la colonna musicale della pellicola, Antonio Pietrangeli si rivolse a colui con il quale avrebbe poi formato un sodalizio artistico, Armando Trovajoli, un musicista ormai affermato, capace di sintetizzare con le note, grazie alla sua sensibilità e proiezione visiva dei suoni, le ambivalenze tematiche della pellicola. Così, il musicista romano creò un tema musicale capace di enunciare la mestizia, la solitudine, l'amarezza della sconfitta attraverso un timbro, un colore opposti, ossia piacevole, orecchiabile, perfino spensierato e che nella parte centrale si trasforma in una ballata, che rimanda alle tipiche atmosfere delle balere di provincia. Ecco il tema musicale:
Ma il finale del film, volutamente indecifrabile in quanto non si riesce a capire se Pina e Adolfo si potranno rivedere, anche solo per imbastire un'affettuosa amicizia, aveva bisogno di un tema completamente differente, tale da evidenziare l'amarezza e il fallimento di quella visita, proprio di "ciò che avrebbe potuto essere e non era stato". Così Trovajoli imbastì un tema, enunciato principalmente dal timbro scuro di un flauto che accompagna i due protagonisti in macchina, con Pina che porta Adolfo, alle prime luci dell'alba, fino a Ferrara, dove lui prenderà il treno per Roma [nel film da 1.42.39 – 1.46.06]. Quel flauto, sul quale si appoggia saltuariamente un fraseggio degli archi, è fondamentalmente un inciso che tratteggia il ritorno a una finta e ipocrita normalità delle cose, confermata dalla voce dei due protagonisti che leggono stralci di due lettere che si scrivono dopo quella "visita", trascinati nuovamente nel loro gorgo muto fatto di lavoro, di abitudini, di consuetudini, che un amore mancato, impossibile da vivere, non potrà mai cambiare o cancellare.
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